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Oggi ti propongo un articolo scritto dal Dott. Giovanni Luise che parla dell'accettazione del dolore.



















Quando soffriamo per qualcosa, schiavi dell’espressione "parlane, così ti liberi!", tendiamo a riversare in modo più o meno incondizionato la forma di infelicità che ci attanaglia in quel preciso istante sul malcapitato familiare che siede a fianco a noi a tavola, sull’amico che per sua sfortuna ha telefonato proprio in quel momento, sul fidanzato che per definizione è obbligato ad ascoltare o sul parrucchiere che invece fa finta di ascoltare… aspetta… o era il contrario?
È come se il nostro cervello interpretasse l’accettazione non nel suo sinonimo più logico di "comprensione" ma nel senso più letterale del termine, cioè come derivato del verbo accettare, dividere, frammentare, per cui quando viviamo una situazione che dentro di noi genera sofferenza la nostra mente non trova di meglio che reputare vincente la scelta di spezzettare il fardello come si fa con una pagnotta e donarne un pezzo a Michele, un pezzo a Maurizio, un pezzo a Marianna e così via.

Nella nostra infinità bontà, vogliamo saziare tutte le persone che ci circondano con i nostri problemi. Alla faccia della fame del mondo.
Negli Stati Uniti è stata stilata una classifica delle parole che le persone utilizzano di più durante le telefonate con la mamma, l’amico, il nemico, la moglie, l’amante, il collega, il cane, il gatto eccetera e… rullo di tamburi… la parola che ripetiamo più spesso è: "IO".
D’altronde: esiste qualcosa di più importante dei nostri problemi in una società che esalta il concetto di condivisione, e che vacilla solo a sentir pronunciare la parola solitudine considerata oramai quasi come una forma di iettatura?
Lungi da me definire un errore relazionarsi con gli altri per avere un consiglio sui nostri insopportabili grattacapi.
E poco importa se i problemi sono reali o è semplicemente la nostra mente che rende vivo un pensiero che, per sua stessa definizione e natura, rimarrebbe appunto solo un pensiero. Quindi non ti preoccupare, nessuno vuole privarti della gioia di donare metà della tua pagnotta a chi desideri. Cerca, casomai, di trovare il coraggio di conservarne un pezzetto anche per te.

Nel nostro (infinito) egoismo, infatti, siamo perennemente convinti che "nessuno ci capisce". Ma non è che nessuno ci capisce perché neanche noi, in definitiva, non sappiamo bene cosa vogliamo?
Non appena ci capita un fuoco tra le mani, cerchiamo in tutti i modi di liberarcene per paura di rimanere scottati, e siamo convinti che sarà proprio la società liquida di cui parlava il sociologo Bauman ad aiutarci a spegnere definitivamente il nostro divampante incendio.

Ma bruciamoci! Che sarà mai?

Nella drammatica (e a volte comica) ossessiva ricerca di qualcuno disposto ad ascoltare le nostre miserie per regalargli così il nostro più profondo dolore con l’assurda convinzione che in questo modo porremo fine alle sofferenze, perdiamo di vista la cosa fondamentale. Il nostro errore non consiste nel cercare un pò di naturale e legittimo sostegno negli altri (alla fine, non è ciò di cui abbiamo bisogno tutti?) bensì nel fatto che consideriamo il vomitare i nostri problemi addosso agli altri, il solo tramite per sfuggire alla sofferenza!

Certo che provi una paura fottuta a rimanere nella stessa stanza con il tuo dolore.
Certo che inquieta cercare di risolvere da soli le schifezze della nostra vita.
Certo che è più facile evitare l’angoscia, il fastidio o la noia, piuttosto che affrontarli a viso aperto.

Non riusciamo a stare da soli con i nostri pensieri negativi, figuriamoci a rimanere a tu per tu con la sofferenza!
Dovremmo prendere esempio da Uma Thurman, che nonostante la sua forma acuta di claustrofobia, per esigenze di copione ha accettato di essere sepolta viva un metro sotto terra e in una bara nel film Kill Bill Vol. 2.
Dopo le riprese ha dichiarato: "Non c’era bisogno di recitare durante quella scena. Le mie urla erano vere". Ciò nonostante, ha affrontato il suo demone.
Non voglio dire che dobbiamo arrivare a farci seppellire sottoterra ma sembra che facciamo di tutto per non sentirci responsabili per quelle situazioni per le quali nove volte su dieci siamo i soli ad essere responsabili.

Diciamoci la verità: non abbiamo la minima voglia di approfondire i nostri problemi e non vogliamo accettarli perché, semplicemente, a noi basta svuotarci.
Se ci pensi bene, anche durante i momenti di relax gestiamo quattro-cinque cose contemporaneamente (tra l’altro tutte male) perché abbiamo paura di affrontare le nostre scottanti questioni e siamo convinti che non pensandoci o affidandole agli altri prima o poi spariranno da sole, come per magia.
Il fatto è che tendi a riempirti le giornate con cazzate perché consideri molto più liberatorio parlare con la tua amica Elisabetta di quanto sia cambiato il tuo fidanzato che prima aveva occhi solo per te e adesso si è comprato un paio di Ray-Ban oscurati per nascondere il fatto che ha occhi solo per le altre, piuttosto che affrontare il perché abbia avuto tale metamorfosi e cercare di sforzarti di capire cosa puoi realmente fare per migliorare la tua relazione dato per assodato che, ahimè, non è un pacco e che non puoi restituirlo come con Amazon ma al massimo puoi rimandarlo a sua madre (ma se è furba neanche lei si riprende quel vecchio rottame che, chissà come, è riuscita ad affibbiarti).

È proprio vero quel detto "quando l’amore c’è, parli con lui escludendo tutti gli altri ma quando è in crisi parli con tutti gli altri escludendo lui".

Massimo Troisi nel film "Pensavo fosse amore invece era un calesse", agli amici che a turno si presentavano a casa sua per tentare a tutti i costi di consolarlo e che si prodigavano per non lasciarlo solo visto la cocente delusione d’amore che aveva subito, ripeteva:
"Andate via vi prego. Lasciatemi soffrire tranquillo. Chi vi chiede niente a voi? Vi ho chiesto qualcosa? No. Voglio solo soffrire bene. Mi distraete. Non mi riesco a concentrare. Con voi qua per casa non ci riesco. Soffro male, soffro poco, non mi diverto. Non c’è quella bella sofferenza!".
Mi distraete dal dolore, ripete nel film.

Esiste un esempio più chiaro di consapevolezza del dolore?

Non possiamo liberarci dal dolore senza averlo accettato e decidere di accettarlo significa essere disposti ad assaporarlo, viverlo, mettersi in discussione, prendere coscienza che siamo fallibili e che commettiamo errori.

Significa che se la tua ragazza ti lascia forse è riduttivo etichettarla solo come una povera immatura.
Significa capire che se hanno promosso il tuo collega, non è necessariamente detto che sia un raccomandato ma, forse, è solo più bravo di te.
Significa sentirsi a proprio agio con il fallimento.
Significa accettare di aver perso.
Significa accettare di soffrire da soli per un pò.
Significa bruciarsi.

Ma bruciamoci! Che sarà mai?



Dr. Matteo Mentuccia

Dr. Matteo Mentuccia, psicologo, mental coach e psicoterapeuta

Sono un Mental Coach, Psicologo, Psicoterapeuta ad orientamento Dinamico Integrato, iscritto all'ordine degli psicologi del Lazio (n° iscrizione 20283), svolgo la libera professione a Colleferro e a Roma.

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